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Tripoli, Libia, 1967

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Tripoli, Libia, 1967

di Dani Mimun

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Illusi dai bollettini della radio egiziana, secondo i quali Israele stava per essere cancellata dalla carta geografica – poche ore ancora, aveva dichiarato Nasser – gli arabi libici avevano deciso di farla finita coi propri “israeliani”, proprio come gli eserciti giordani, siriani ed egiziani stavano facendo al fronte. Nel loro immaginario, probabilmente, l’avanzata araba, inarrestabile, era accompagnata da eccidi di massa, stupri collettivi e linciaggi della popolazione israeliana. Non era forse questo il messaggio che la propaganda nasseriana aveva trasmesso in tanti anni di trasmissioni radiofoniche? Gli arabi libici, nell’uccidere la propria popolazione ebraica, erano fortemente convinti di partecipare alla guerra dei loro cugini. Ma quale il nesso fra Israele in guerra e gli ebrei libici? Nessuno, se non il comune denominatore ebraico. Gli ebrei libici si erano ristanziati in quel paese circa milletrecento anni prima, provenendo da Alessandria, muovendosi ad ovest sulle piste del commercio e fermandosi per lo più nell’antica Oea romana, abbandonando il movimento migratorio e trasformandosi in popolazione artigiana e commerciante.

Ma gli ebrei, erano in Libia già dai tempi del primo Tempio di Gerusalemme, e la comunità era numerosa ai tempi del secondo Tempio. Poi emigrarono in massa ai tempi di Rabbi Akiva, di ritorno in Israele, per sparire gradualmente alla fine del primo millennio.

In altre parole, gli ebrei ci erano sempre stati, a Tripoli.

Questa piccola popolazione peraltro viveva in “armonia” con gli arabi – in armonia come gli ebrei avevano vissuto ovunque in armonia per duemila anni sotto popolazioni che a malapena li sopportavano. Continuamente vessati, ma non torturati o messi a morte e quindi in definitiva, sulla base del concetto di “vita ebraica” prima del moderno stato di Israele, “abbastanza bene”.

In seguito, con la consapevolezza che in Israele le cose stavano andando esattamente all’opposto di quanto previsto, che cioè era Israele che stava avanzando in tutte le direzioni contro gli eserciti arabi ormai in rotta, l’odio per gli ebrei, se così si può dire, aumentava ancor più.

La comunità ebraica era rinchiusa nelle case, praticamente in stato di assedio, con sporadici massacri, come il caso di due intere famiglie prelevate dalla “polizia”, messe a morte e seppellite nella calce viva ed altri episodi del genere.

L’aspetto interessante in questo stato di cose era comunque il comportamento di molti arabi che erano stati le persone di fiducia di alcune famiglie ebraiche. Erano loro a capeggiare le folle alla ricerca di protettori, erano loro che, al corrente dei piccoli segreti, quali l’indirizzo della casa in campagna o della seconda abitazione, tentavano di stanare gli assediati per metterli a morte. Comunque, dopo pochi giorni, l’intero atteggiamento della popolazione araba mutò completamente: passato il momento del progrom, i cosidetti “fidati” miravano ad impossessarsi dei beni dei loro precedenti datori di lavoro. Convinti che per gli ebrei era comunque finita, erano sicuri che avrebbero potuto mettere le mani sulle loro attività economiche e sulle loro ricchezze.

Muftah, preso sotto l’ala protettrice di mio padre all’età di sei anni, Muftah che tutto sapeva di noi, Muftah che mi portava a fare lunghe passeggiate sul lungomare quando, bambino, ero stato affetto da una malattia ai bronchi, Muftah che godeva di un tenore di vita di gran lunga superiore a quello degli altri operai delle nostre aziende, Muftah che aveva acquistato la casa con prestiti di cui mio padre non si sarebbe mai permesso di chiederne la restituzione, Muftah quindi era quello che aveva organizzato gruppi di nostri operai alla ricerca dei componenti della nostra famiglia per farli a pezzi. Questo, in breve, era lo spirito che animava le folle arabe nei giorni successivi al grande pogrom.

Il governo libico, sotto la guida del saggio sovrano Idris, dopo aver ammassato parte della popolazione ebraica in campi di raccolta, ammettendo di non poter difendere i propri cittadini ebrei, permise di avviare un ponte aereo con cui l’intera comunità ebraica fu in meno di un mese trasferita a Roma, permettendo ad ogni persona di portare con sé, oltre a qualche valigia, anche ben cinquanta sterline. All’aeroporto, in partenza, comunque, i gioielli e gli oggetti di valore venivano confiscati.

In tutta la storia di duemila anni di persecuzioni ebraiche, questo fu un dei pochissimi casi in cui un paese riuscì, in un sol colpo, a liberarsi per sempre di tutta la sua popolazione ebraica.

Forse solo la Spagna di Isabella riuscì nello stesso intento, ma solo formalmente, poiché si trascinò per secoli i nuovi cristiani che giunsero alle vette di tutte le gerarchie, ora finalmente accessibili, e i marrani, di cui non riuscirono mai a liberarsi.

Nell’Ottocento, in Europa, una delle pene più terribili che venivano comminate, oltre alla pena capitale e all’ergastolo, consisteva nell’esilio a vita ed il sequestro di tutti i beni. Le comunità ebraiche di Tripoli e Bengasi, Libia, furono condannate, collettivamente, a questa pena, ree di aver voluto professare la propria religione e mantenere le proprie tradizioni.

L’esilio fu avviato dal benevolo e tollerante Idris ed il sequestro totale fu sancito da Gheddafi, un paio d’anni più tardi, quando rovesciò la monarchia, sigillando una volta per sempre il “transfer” di una intera comunità.

Il ritornello più stupido che gli ebrei libici avevano amato ripetere, in tempi non molto lontani, era che “fintanto che fosse vissuto questo buon re, nulla avrebbero avuto da temere”.

Il blog di Barbara


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